Plastica fuori di noi e plastica dentro di noi
di Adolfo Santoro - sabato 08 aprile 2023 ore 09:00
Lo spettacolo deve continuare - “The show must go on” - non solo per gli incubi di guerra, siccità, desertificazione e diminuzione della produzione alimentare, ma anche per la plastica-spazzatura.
Da sessanta anni la plastica ha rivoluzionato il modo di vivere diventando il segno distintivo dell’Antropocene: grazie alle sue caratteristiche (leggerezza, versatilità di utilizzo, economicità e resistenza) ha rimpiazzato in molti utilizzi i materiali convenzionali come metalli, vetro e carta. Sebbene non degradabile, la plastica, sotto l’azione di agenti esterni, può trasformarsi da macroplastica (di dimensione superiore a 5 mm) in microplastica (di dimensione tra 1 micron e 5 mm) e in nanoplastica (di dimensione inferiore al micron).
La plastica presente nell’ambiente è, per lo più, “secondaria” alla degradazione dei rifiuti di macroplastica, ma può derivare anche, ad esempio, da fibre sintetiche provenienti da lavaggi in lavatrice e da frammenti di pneumatici in attrito con l’asfalto; la microplastica “primaria” consiste invece in prodotti abrasivi, utilizzati in casa o nell’industria (ad esempio, in prodotti come cosmetici, vernici o paste per lucidare oggetti).
Tutti gli stati producono rifiuti in plastica, che in genere non vengono correttamente gestiti: abbandonati in discariche a cielo aperto (dove liberano metano) o direttamente gettati nell’ambiente, spesso finiscono in laghi e fiumi per poi finire riversati in mare. Non esiste praticamente settore dell’attività umana che non sia stato influenzato da oggetti in plastica: dalla medicina, alle automobili, agli aerei, ai dispositivi di ogni tipo che hanno reso più facile la vita dell’”Homo poco sapiens”.
La produzione ogni anno di 450 milioni di tonnellate di plastica contribuisce al 4,5% delle emissioni mondiali di gas-serra, 8 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica finiscono ogni anno negli oceani ed in fondo al mare sono depositati tra 15 e 50 miliardi di miliardi di microplastiche.
Le correnti marine concentrano i rifiuti di plastica in vortici che finiscono per formare le “isole di plastica”, le più importanti delle quali sono nei Sargassi, nell’Artico, nell’Oceano Indiano, nell’Atlantico del Sud, nell’Atlantico del Nord, nel Sud-Pacifico e nel Grande Pacifico.
Uno studio del 2016 di Science Advance, che considera solo la produzione di rifiuti in plastica (e non i luoghi dove questa viene smaltita) stila la seguente classifica: Stati Uniti 42 milioni di tonnellate, India 26.3 milioni di tonnellate, Cina 21.6 milioni di tonnellate, Brasile 10.7 milioni di tonnellate, Indonesia 9.1 milioni di tonnellate, Russia 8.5 milioni di tonnellate, Germania 6.7 milioni di tonnellate, Regno Unito 6.5 milioni di tonnellate, Messico 5.9 milioni di tonnellate e Giappone 4.9 milioni di tonnellate. L’Italia è il 13° produttore mondiale, il 3° all’interno dell’Unione Europea.
Se invece si analizza lo smaltimento dei rifiuti in plastica, il quadro cambia: i Paesi responsabili dell’inquinamento della plastica nell’oceano sono le Filippine per il 35%, l’India per il 12,5%, Malaysia, Cina e Indonesia si attestano attorno al 7%, Myanmar e Brasile si attestano attorno al 4%, Vietnam, Bangladesh e Tailandia si attestano attorno al 2,5%, mentre il Resto del mondo fa la sua parte col 17,5%. Questa incongruenza non si spiega solo col fatto che i Paesi tropicali hanno un’emissione maggiore di rifiuti (dovuta sia alla relativamente minore superficie paragonata alla lunghezza delle loro linee di costa, sia alla quantità delle precipitazioni, che aumentano la probabilità che i rifiuti plastici siano scaricati in mare dai grandi fiumi): è che lo smaltimento dei rifiuti è delocalizzato dai Paesi ricchi in quelli poveri.
È soprattutto il Mediterraneo ad essere inquinato dalla plastica: a causa delle coste densamente popolate e della sua forma a bacino semichiuso che limita il deflusso delle acque, i rifiuti di plastica si accumulano in correnti e si sbriciolano in microplastiche; macroplastiche e microplastiche, col passare del tempo, oltre a riversarsi sulle spiagge, si depositano sui fondali (per effetto del biofouling, cioè per la colonizzazione di plancton e alghe che ne cambiano la densità). Le correnti di plastica del Mediterraneo fanno sì che lo spiaggiamento avvenga soprattutto ad oriente (Egitto, Israele, Turchia), mentre l’accumulo nel mare avviene ad occidente (Spagna, Marsiglia e di qui al mar Ligure ed al mare al di sopra dell’Elba, dove si è formata un’”isola” di plastica. Secondo una valutazione del WWF del 2019, ogni minuto finiscono nel Mediterraneo 33.000 bottiglie di plastica, ogni anno vi finiscono 11.200 tonnellate di rifiuti di plastica e 14,4 milioni di tonnellate di microplastiche sarebbero depositate nei fondali marini (nelle acque profonde del Mediterraneo si trova la più alta concentrazione di microplastiche rispetto ad ogni altro mare).
Più della metà di questa plastica proviene da soli 3 Paesi: il 32% dall’Egitto, il 15% dall’Italia e 10% dalla Turchia. Se si guarda alle città più inquinanti del bacino del Mediterraneo, tra le prime 10 ben 5 sono italiane (Roma- che detiene il primato assoluto-Milano, Torino, Palermo e Genova). Fonte principale di immissione della plastica in mare sono le attività costiere e una gestione inefficiente dei rifiuti, che peggiora ulteriormente nel periodo estivo a causa dell’aumento dei flussi turistici e delle relative attività ricreative; seguono (con il 22%) le attività in mare che, con pesca, acquacoltura e navigazione, disperdono nasse, reti e cassette per il trasporto del pesce. Almeno 116 specie animali che vivono nel Mediterraneo hanno ingerito plastica: il 59% sono pesci ossei, tra cui sardine, triglie, orate, merluzzi, acciughe, tonni, il restante 41% è costituito da altri animali marini come mammiferi, crostacei, molluschi, meduse, tartarughe e uccelli; una balena filtra 700mila litri di acqua ogni volta che apre bocca assumendo una quantità enorme di plastiche e microplastiche che hanno un’elevata concentrazione di inquinanti: in loro gli ftalati, presenti anche nelle bottiglie di plastica, sono 4-5 volte superiori a quelli delle balene che vivono in zone meno contaminate del pianeta.
La “tecnologia delle micro-plastiche” si è finora difesa dall’accusa di inquinamento della catena alimentare e di rilascio di sostanze dannose negli organismi, compreso l’uomo, grazie al pregiudizio, secondo il quale la plastica sarebbe “materiale inerte”, che, poiché transita nell’organismo per essere eliminato con le feci, non è in grado di bioaccumularsi. Anche l’eventualità che la plastica possa funzionare da vettore di sostanze contaminanti idrofobiche e di microorganismi (come virus, batteri e muffe) è stata giudicata un rischio “sopportabile”. Ma pesci e uccelli non sono d’accordo con questo riduttivo ottimismo, perché, prima che fosse coniato il neologismo “plasticosi”, cioè di malattie da plastica, loro le stavano già sperimentando! L’inquinamento da plastica causa danni alla vita marina attraverso diversi meccanismi: intrappolamento, ingestione, soffocamento e rilascio di sostanze chimiche tossiche. Sono 2.150 specie marine che sono venute in contatto con la plastica. Fino al 90% di tutti gli uccelli marini e il 52% di tutte le tartarughe marine ingeriscono plastica, alcuni pesci diventano ciechi, alcuni uccelli reagiscono con una fibrosi intestinale e cicatrici gastriche, che ledono le capacità digestive esponendo ad infezioni e a parassiti. Nell’inquinamento sono inoltre coinvolti alcuni ecosistemi marini importanti, come le barriere coralline e le foreste di mangrovie. Notevoli quantità di microplastiche sono state trovate sulle cime dei monti (perfino sull’Everest!), dove giungono attraverso le precipitazioni.
Anche le bioplastiche o le plastiche biodegradabili si trasformano in micro-nanoplastiche.
Quel che si sa è che le microplastiche inferiori ai 25 micron possono entrare nel corpo umano attraverso il naso o la bocca e quelle inferiori ai 5 micron penetrano nei tessuti polmonari: siamo esposti alle microplastiche attraverso l’inalazione di microplastiche presenti in aria, il consumo di cibi (pesce, gamberi, bivalvi, sale, birra, miele, acqua in bottiglia, acqua di rubinetto, animali da allevamento nutriti con farine di pesce, confezioni alimentari soprattutto se scaldate nel forno a micro-onde, stoviglie di plastica), tessuti sintetici (il loro sfregamento in ambiente chiuso permette l’accumulo), lo sfregamento degli pneumatici sull’asfalto, i cosmetici. È noto anche che le microplastiche sono “appiccicose” e possono accumulare metalli pesanti, come il mercurio, e inquinanti organici persistenti (POP, persistent organic pollutants), che hanno conseguenze note sulla salute.
Anche la “tecnologia delle nanoplastiche” si è difesa attraverso la diffusione di pregiudizi scientifici: la maggior parte delle nanoparticelle sarebbero innocue, anche se la valutazione dei rischi da contatto con esse è tutt’altro che semplice! Le nanoparticelle possono entrare nel corpo umano in tre modi diversi: mediante inalazione, mediante ingestione, attraverso la pelle. La via inalatoria è la più pericolosa: la penetrazione di nanoparticelle nei polmoni provoca stati infiammatori, che possono aprire la strada al cancro; ma un danno a fegato, reni, cuore e milza è stato documentato nei ratti anche dopo ingestione. Studi di laboratorio hanno mostrato che le nanoplastiche di polistirene ingerite dagli organismi acquatici passano attraverso la parete cellulare, anche in alcuni campioni di intestino umano.
Studi dell’Università di Catania hanno trovato, nello sviluppo delle larve di pesci d’acqua dolce, gravi deformità a livello della colonna e della coda, una compromessa integrità della struttura visiva e delle funzionalità degli occhi. Uno studio condotto su volontari provenienti da tutto il mondo ha dimostrato la presenza di almeno 20 diversi tipi di microplastiche in 10 grammi di feci; polipropilene e polietilene tereftalato erano presenti in tutti i campioni analizzati. Uno studio iberico ha trovato che le nanoplastiche alterano il microbioma intestinale e minacciano la salute umana sia nei vertebrati che negli invertebrati e, se l’esposizione è diffusa e prolungata, si verificano alterazioni nel sistema immunitario, endocrino e nervoso. Uno studio olandese ha riscontrato la presenza di micro-nanoplastiche nel sangue umano nella quantità media di 1,6 microgrammi per millilitro (come un cucchiaino da tè in 1.000 litri d'acqua) con rischio di comportarsi da “interferente endocrino” e, quindi, di provocare, secondo l’Istituto Superiore di Sanità, stress ossidativo, problemi metabolici, processi infiammatori, danni ai sistemi immunitario e neurologico. Le microplastiche possono, inoltre, trasportare, attaccati alla loro superficie, microrganismi patogeni (come Escherichia coli, Bacillus cereus e Stenotrophomonas maltophilia, rilevati in microplastiche raccolte al largo delle coste del Belgio).
A ciò si aggiunga che, se l’industria della plastica fosse un Paese, sarebbe il quarto produttore di CO2 al mondo dopo Cina, Stati Uniti e India. E le previsioni non sono incoraggianti: se le cose continuano ad andare così, ogni decennio vedrà raddoppiare i volumi di plastica prodotta, tanto che nel 2050 le emissioni di CO2 da plastica potrebbero raggiungere i 6,5 miliardi di tonnellate, circa il 15% del bilancio globale delle emissioni ed i rifiuti in plastica presenti negli oceani raddoppieranno di quantità entro il 2040.
Si prevede inoltre che nel 2050 negli oceani il peso complessivo della plastica supererà quello degli animali marini. Ma quello che allarma di più è che l’alterazione dei processi di fotosintesi delle piante marine diminuirà drasticamente il rilascio di ossigeno con la minaccia diretta della continuità della vita sulla Terra!
Il danno è già stato fatto, “the show must go on” e le timide iniziative di “educare” al riciclaggio o di legiferare (ma a 9 mesi dall’approvazione della legge “Salvamare” i decreti attuativi sono ancora lì ad attendere) sembrano essere un palliativo: la raccolta differenziata serve a poco, se i “decisori” (di tutto il mondo) non invertono la tendenza al livello della produzione. Ma ciò significherebbe mandare in crisi il sistema di distribuzione dei supermercati (imballaggi e confezionamenti), l’industria della moda, quella farmaceutica, quella delle armi… insomma un’inversione verso la decrescita serena!
Nel frattempo ricordiamoci che il forno a micro-onde, l’acqua in bottiglia di plastica esposta al sole, i biberon di plastica ed, in genere, il cibo industriale sono pericolosi per la salute e rinunciamo ai vestiti sintetici e ai cosmetici!
Adolfo Santoro