Israele, attentato a Gerusalemme
di Alfredo De Girolamo e Enrico Catassi - martedì 26 aprile 2016 ore 13:26
Gerusalemme ancora una volta piomba in una angosciante sciagura. Alla vigilia della Pesach, la Pasqua ebraica, poco dopo le 17.30 di un lunedì pomeriggio in una calda primavera, esplode un bus di linea: 21 persone ferite, alcune in gravissime condizioni. Tra queste il presunto kamikaze palestinese. L'attacco terroristico interrompe settimane di relativa calma, se di calma si possa mai parlare in Medioriente, dopo l'escalation, nei passati mesi, dell'Intifada dei lupi solitari i giovani “martiri” palestinesi ripongono il coltello e indossano le cinture esplosive, copiando l'esempio dei loro coetanei di Bruxelles e Parigi. L'attentato a Gerusalemme segna quello che viene commentato dagli analisti come “un salto di qualità del terrorismo palestinese”, ovviamente in negativo. In realtà è il ritorno ad una strategia “vecchia” che non si vedeva da anni, dalla Seconda Intifada e le bombe nei luoghi pubblici. Bus, bar, ristoranti, pizzerie, discoteche macchiati di sangue innocente, una lunga scia di morti, di lenzuoli bianchi a coprire i cadaveri che giacevano a terra.
Ieri come oggi quando Israele è attaccato a Gaza si festeggia con pasticcini e canti. Nella striscia di terra più densamente popolata al mondo regna il fondamentalismo islamico di Hamas, alleato dell'Isis in Sinai nel nome della jihad: la guerra santa globale colpisce il vagone della metropolitana alla fermata del quartiere multietnico di Maelbeek e l'autobus numero 12 a Talpiot, periferia meridionale della città Santa. Luogo di centri commerciali, meccanici e carrozzerie dove quotidianamente palestinesi ed israeliani lavorano fianco a fianco e dove dividono la fila nei supermercati. “Dopo l'esplosione non si vedeva più niente era buio, c'era fumo ovunque. Mi sono messa a cercare mia figlia, l'ho trovata sdraiata a terra aveva tutto il corpo ustionato. Tra un mese avrebbe compiuto 16 anni, ora è sedata da farmaci e attaccata ad un respiratore. Adesso prego che sopravviva”. È il ritorno ad una triste cronaca: il boato, un rumore sordo che ti entra dentro, un brivido che ti scuote. E poi un istante di silenzio innaturale, il fumo, le grida, le sirene delle ambulanze in una corsa contro il tempo, i paramedici con i lettini e le flebo, i poliziotti che transennano l'area, gli elicotteri, il caos e la paura che si diffondono ovunque. Quando finirà tutto questo? C'è chi dice quando ci sarà uno stato palestinese indipendente e c'è chi dice quando non esisterà più uno stato di Israele. È lecito pensare che non finirà mai. A meno che “qualcuno” non decida di porvi fine, a chiare lettere. Dando ascolto, per una volta, alle voci di pace, al lamento e alle lacrime della gente che soffre. “Non ho mai intenzionalmente fatto del male ad un'altra persona.
Non mi è mai venuto in mente di maltrattare un altro essere umano solo perché la pensa in modo diverso”. Legge il testo del comunicato in inglese Renana Meir, 17 anni israeliana, spiegando che sua madre è stata uccisa davanti a lei, sotto i suoi occhi: brutalmente accoltellata da due minorenni palestinesi. Parla la giovane Renana, nelle stesse ore in cui a Gerusalemme ancora una volta si salta in aria, e lo fa alla platea di diplomatici del Consiglio di Sicurezza al Palazzo di Vetro. “È difficile esprimere a parole quanto sia profondo il mio dolore”. Eppure, aggiunge “Io non odio, non riesco ad odiare. Con il cuore a pezzi siamo venuti qui oggi a chiedere il vostro aiuto. Aiutateci a creare la pace attraverso l'amore e a trovare il buono che è in ciascuno di noi”.
Alfredo De Girolamo e Enrico Catassi